Il mio nome è Publio Decio Mure.
Ho l’onore, e l’onere, di essere Console della Repubblica, per la quarta volta, nell’anno 458 dalla fondazione dell’Urbe.
Vengo da una famiglia che ha dato molti magistrati e Consoli alla Repubblica, uomini di grande coraggio e virtù, molti dei quali si sono sacrificati sui campi di battaglia, come fece mio padre…
Sono stato Console più volte, perfino Censore, ho ricoperto tutte le cariche politiche e militari possibili, ma porto lo stesso nome di mio padre: sarò ricordato per essere stato all’altezza della sua fama e del suo valore?
Di certo oggi un esercito immenso di nemici ci attende, desideroso di riscattare le numerose sconfitte che abbiamo loro inflitto in tanti anni…
Hanno superato tutte le loro diffidenze reciproche, hanno stretto un patto di ferro e hanno giurato di combatterci tutti insieme fino alla fine, loro o… nostra.
I Sanniti. Li conosco bene per averli combattuti e sconfitti più volte. Sono i guerrieri più duri e indomabili che abbia mai incontrato, solidi come le rocce delle loro montagne, scontrosi e ruvidi come arieti, feroci come gli orsi e i lupi che vivono nei luoghi più inaccessibili.
Gli Etruschi. Conosco bene anche loro, anche se il mio collega Fabio Massimo li ha combattuti molte più volte di me: i nostri antichi tiranni, scaltri e raffinati come greci, che cacciammo da Roma duecento anni fa quando decidemmo di essere liberi e di non avere mai più un re a governarci. Hanno continuato a insidiare la nostra Repubblica, intessendo trame con i nostri nemici e corrompendo chi potevano, pensando forse che le arti dell’inganno e della politica potessero vincere alla lunga sulla forza morale e vitale di un popolo. Ma in battaglia non servono i denari e le lusinghe: conta solo il ferro e la saldezza del braccio di chi lo brandisce.
E i Galli, infine. Non sono passati neanche cento anni dalla loro incursione su Roma, che molti di noi ricordano con paura e con sdegno, quasi come se fossero esseri malvagi da evocare per spaventare i bambini. Sono uomini di grande corporatura, spavaldi e selvaggi, Molti di loro fanno della guerra il loro mestiere e si vendono a chi li paga meglio. Ma si dice anche che resistono poco alle fatiche, alle intemperie e alle ferite, e che basta fargli bere un po’ di vino per farli cadere addormentati.
E ora tutti costoro, coalizzati in un esercito di forse centomila uomini, ci aspettano davanti a queste montagne lontane, sulla strada dell’Adriatico, quasi a sbarrarci la strada del nord in un ultimo disperato tentativo di sopravvivenza dei loro popoli.
Mi sembra quasi di avvertire sulla mia pelle il loro odio, la loro disperazione, il loro istinto di bestia ferita pronta a lottare per la vita…
Il mio collega anziano, Fabio Massimo Rulliano, è un uomo diverso da me: è un patrizio, un uomo di cultura, ed è molto più posato e prudente di quanto io potrò mai essere. Non è stato sempre così: ricordo quando, giovane e irruento, disobbedendo al dittatore Papiro Cursore, affrontò un terribile processo per tradimento e riuscì a salvarsi fortunosamente, sulla pressione del popolo. Ma solo perché era, ed è tuttora, molto amato per il suo coraggio e il suo valore. Da allora è molto cambiato, e, al suo confronto, ora sono io il giovane irruento da tenere a freno.
Siamo stati molto amici e abbiamo condiviso il consolato per ben tre volte. E anche se negli ultimi tempi abbiamo avuto qualche dissapore, nulla potrà cancellare la stima e la simpatia che mi legano a lui.
Oggi ci troviamo con gli eserciti riuniti, lui alla destra, come è giusto che sia, e io alla sinistra dello schieramento.
Sono desideroso di battermi, per l’onore dei miei Antenati, per il mio Popolo, per la Repubblica. Sono impaziente di cavalcare verso il nemico, ma sono anche tranquillo e sereno con la mia coscienza.
Qualunque cosa succederà, qualunque sorte ci riserverà il Fato, qualunque volontà vorranno attuare gli dèi, io sono pronto.
Paratus sum.
Publio Decio Mure
Console della Repubblica